La traduzione letterale è “licenziarsi in silenzio”. Come interpretato in prevalenza “licenziarsi senza licenziarsi”. Di fatto, lavorare l’indispensabile per poi dedicarsi ad altro per ricavare soddisfazioni personali e gratificazioni, cercando di evitare lo stress e la monotonia del lavoro di routine.

Un numero sempre crescente di lavoratori, soprattutto giovani, non è soddisfatto del lavoro che svolge o delle opportunità loro presentate. L’insoddisfazione sul lavoro è un tema importante di cui le aziende dovrebbero tenere conto ed è trasversale per età tra i lavoratori. Queste “frustrazioni” sono frutto, spesso di altre circostanze relative all’ambiente di lavoro, al rapporto con i colleghi e con il management, allo sfruttamento del lavoro ed alla precarietà dello stesso.

Different professional workers standing together during labor day

Questo fenomeno è studiato da diversi punti di vista e molti ricercatori sostengono che la pandemia, con i suoi blocchi e con le attività da remoto, abbia amplificato le riflessioni di chi ha lavorato da casa in questo periodo circa la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Secondo Maria Kordowicz, docente presso la University of Nottingham, esperta di comportamento organizzativo nelle imprese, “il rapporto delle persone con il lavoro è cambiato in tutte le professioni”.

Sempre secondo la docente, la diffusione di questo cambiamento nelle persone è in parte conseguenza di riflessioni favorite dalla pandemia sul senso del lavoro e della vita.

Le persone hanno provato disorientamento durante la pandemia nel cercare di trovare un equilibrio tra il lavoro e la vita privata, specialmente nel caso del lavoro svolto da remoto (smart working). L’insieme di queste condizioni avrebbe quindi portato all’attuale diffusa mancanza di motivazioni e di entusiasmo, e in definitiva a una riduzione dell’impegno sul lavoro. In un recente articolo sul New York Times, a proposito di pandemia, si centra l’attenzione sul “Languishing” (illanguidimento) che ha pervaso molti lavoratori durante il lockdown, soprattutto quelli che hanno lavorato da remoto, e che si manifesta come una condizione di vuoto, immobilità e perdita di interesse. Questa condizione non rappresenta né uno stato di depressione né di Burn-out (sindrome da stress lavorativo ed esaurimento emotivo), né di disturbo post traumatico (PTSD) ma potrebbe evolvere, secondo certa letteratura, in altri disturbi psichici.

Sembrerebbe, quindi, che tra le cause scatenanti del quiet quitting ci sarebbe lo smart working.

Prima della pandemia, lo smart working era vissuto da molte aziende con preoccupazione per l’impossibilità di controllare direttamente l’operato degli addetti. Oltre a questo, veniva meno la sensazione che i subalterni rispondessero alle sollecitazioni produttive dei rispettivi responsabili (pressioni commerciali).

Nel corso dei lockdown, le aziende con molti lavoratori costretti a casa sono state costrette ad investire in dotazioni informatiche per produzione da remoto, ma di contro hanno visto diminuire le spese di sicurezza, manutenzione degli uffici, energia. Molti immobili sono stati dismessi ed altri resi non operativi.

I lavoratori si sono trovati ad affrontare una situazione imprevista e spesso sconosciuta con l’aggravante della preoccupazione per le vicende sanitarie oltre che per i costi di produzione da casa. Di contro sono venuti meno i costi per recarsi al lavoro in termini economici, di tempo e di inquinamento ambientale.

La paura di essere giudicati improduttivi, soprattutto da parte di addetti “in carriera”, ha fatto aumentare molto il tempo dedicato alla propria attività, trovando difficoltà a disconnettersi sia per la voglia di sembrare efficienti oltre che per le “pressioni” esercitate dai responsabili in un’accezione del lavoro che non prende in considerazione il benessere del lavoratore.

Alcuni esperti della medicina del lavoro avevano previsto che, oltre ai problemi di postura dovuti alle postazioni di lavoro improvvisate in salotto o in cucina, ci sarebbe stato bisogno di molta assistenza psicologica dopo la pandemia.

Adesso che le restrizioni si sono allentate, molte aziende hanno richiamato in ufficio i lavoratori, spesso loro malgrado. E’ il caso di Apple e di Google che hanno previsto la presenza di tre giorni a settimana in ufficio. I dipendenti di Apple hanno sottoscritto una petizione per dichiarare “preistorico” il concetto di lavoro in ufficio.

Ma l’ufficio è ritenuto da molti esperti in materia di lavoro un luogo dove ci si può riunire per fare squadra, per trovare nuove sollecitazioni e per scambiarsi esperienze, azioni quasi impossibili da remoto.

Da citare alcune esperienze molto limitate in verità, di aziende che destinano parte del lavoro retribuito dei dipendenti ad attività di progettazione in reparti di incubazione di innovazioni. I progetti, che passano il vaglio di una commissione di verifica, vengono finanziati e dotati degli strumenti necessari.

Altra attività prevista in alcune realtà per chi sente di provare soddisfazione dalla stessa, è quella di formare nuovi assunti e, quindi, creare i teams tanto ricercati nell’organizzazione moderna del lavoro.

 

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